Quanto rischiano le PMI a causa del COVID?
Quanto rischiano le PMI a causa del COVID?
Una delle situazioni più delicate che si è andata profilando nel contesto economico attuale, in seguito all’emergenza sanitaria causata dal Covid-19, è senz’altro quella che vede protagonista le piccole e medie imprese. Un recente studio condotto dal Cerved1, in seno alla settima edizione di Osservatorio Italia, ha analizzato appunto le condizioni in cui versano le PMI cercando di intravedere quali possono essere gli scenari futuri e facendo un punto della situazione contemporanea.
Come sappiamo le PMI sono la spina dorsale dell’economia italiana, il vero e proprio tessuto economico del nostro Paese, contribuendo all’occupazione e anche alla sua distribuzione geografica (in molti casi eventuali disoccupati hanno pochissime possibilità di lavoro alternative nella loro zona), ed è per questo che anche a livello politico è fondamentale mettere le PMI nelle condizioni di non solo di poter sopravvivere, ma di evolvere con successo in contesti competitivi sempre più dinamici ed interconnessi. Purtroppo, alla vigilia della pandemia, le PMI si trovavano ancora in una fase di ripresa dalle due crisi, del 2008 prima e del 2011 poi, fronteggiate a stretto giro, che hanno da un lato dimostrato la solidità e la resilienza delle nostre imprese, ma dall’altro richiesto enormi sacrifici e grande capacità di reazione.
In questi undici anni, dal 2008 al 2019, le aziende hanno dunque messo in piedi un processo di ripresa che se dal punto di vista del fatturato era stato portato a termine facendo loro raggiungere livelli pre-crisi, dal punto di vista della redditività, quindi in termini di marginalità, il processo non era completato e, anzi, le imprese erano ancora indietro di ben tre punti percentuali rispetto al 2007. Inoltre, il 2019 ha visto registrare anche una grossa impennata dei fallimenti aziendali, che per alcuni settori come quello delle costruzioni e dei servizi è stata quasi doppia rispetto all’anno precedente.
Alla luce di quanto detto sinora si rende evidente un fatto fondamentale: nel bel mezzo del processo di uscita dalla crisi, le PMI sono state colpite duramente dalla pandemia che le ha rigettate in una situazione di assoluta imprevedibilità, in grado di scardinare tutti i progetti pregressi. Inoltre, le misure di distanziamento e i diversi lockdown hanno colpito in misura davvero asimmetrica i singoli settori e comparti impattando su ciascuno in modo differente. Aspetto, quest’ultimo, che emerge con forza dal Report Cerved il quale ha integrato i modelli econometrici tradizionali con delle variabili specifiche affinché si potesse ottenere una fotografia il più veritiera possibile della realtà che le imprese dovranno affrontare in questo 2021 e nel 2022.
Un fatturato in calo di 10 punti percentuali nel 2020, un mezzogiorno che arranca ancora di più e 5 settori più pesantemente colpiti, ossia i trasporti, il turismo, la ristorazione, la logistica e l’industria della moda: questi i risultati immediatamente evidenti. Ammontano, inoltre, a 20mila le piccole e medie imprese che hanno registrato una contrazione superiore al 25% del fatturato, imprese che costituiscono ben il 20% del totale delle PMI italiane.
In tutto ciò cresce in maniera preoccupante il rischio di fallimento (il tasso di rischio stimato nel 2019 al 4,5%, si prevede salga al 6% a fine anno, registrando un +34%) anche a causa della forte crisi di liquidità che con gli aiuti governativi è stata solo sedata, ma in misura analgesica, senza superare una dimensione puramente palliativa. Ma a guardare i numeri delle aziende fallite nel 2020 sembrerebbe un anno di grazia, visto il crollo di dossier presentati fino a settembre scorso. Purtroppo, da una parte i tribunali e gli uffici chiusi e dall’altra le improcedibilità di legge sono le vere ragioni di questo calo che non cela dietro di sé la solidità della PMI, bensì è soltanto indice dell’eccezionalità della situazione.
Guardando al futuro, mi auspico che con l’avvento del nuovo governo possano con velocità essere gestite le criticità attuali, attuando una politica di messa in sicurezza della piccola e media impresa italiana che non va abbandonata al suo destino facendo perno solo sugli ammortizzatori sociali, ma va aiutata tramite un sapiente uso dei fondi europei, che devono configurarsi come un debito “buono”, finalizzato a creare investimenti necessari a generare crescita. Puntare sui giovani, sulla digital capability, uno dei driver di crescita maggiori per il futuro delle aziende, sulla modifica e l’incremento delle infrastrutture affinché investendo in sostenibilità etica e ambientale possano rendere fattiva la transizione dell’economia da brown a green. Dal punto prettamente finanziario, è quindi importante, che si dia tempo alle imprese di ripagare il debito contratto in questi mesi, come sottolineato da più parti, ma anche e soprattutto di facilitare l’accesso al credito, con tassi bassi e formule di stand still o pre-ammortamento iniziali, e più in generale di facilitare l’accesso ai mercati dei capitali, specie quello dei capitali di rischio, considerato la storica sottocapitalizzazione delle PMI italiane.
Le sfide che ci attendono nel prossimo futuro sono molte, ma non è pensabile lasciare indietro la piccola e media impresa. Sarebbe come dire lasciare indietro il Paese.